Nel febbraio del 2010, Roberto Andreoli perde suo figlio Pietro, 6 anni, a causa di una malformazione. Nel 2012 la corsa gli permette di “reagire e rinascere”, come ci ha detto lui stesso. Da questa esperienza, quattro anni dopo, nasce #Run106Pietro: una corsa di 106 chilometri nel deserto, collegata ad una raccolta fondi personale che ha come obiettivo il raggiungimento di 21mila euro da destinare alla lotta contro il Neuroblastoma, una grave malattia che colpisce i bambini.

Ciao Roberto, come è nata l’idea del progetto? Perché hai scelto di essere un personal fundraiser per UNA Onlus nella lotta contro il Neuroblastoma?

#Run106Pietro
Nel 2010 ho perso mio figlio Pietro a causa di una malformazione altero-venosa dietro al cervelletto. Da qui il desiderio di aiutare UNA Onlus, associazione che conosco da tempo e che apprezzo molto. Loro si occupano di aiutare bambini affetti da Neuroblastoma e le loro famiglie: anche se non si tratta della stessa malattia che ha portato via mio figlio, mi sono sentito molto vicino alla loro causa.

Ho capito che se si vuole contribuire a fare del bene, le possibilità sono due: o ci si impegna in prima persona facendo volontariato, oppure si contribuisce donando o raccogliendo fondi. Nel mio caso non me la sono sentita di operare a stretto contatto con bambini malati, anche a causa della mia storia personale. Così ho scelto di diventare un personal fundraiser.

Come fare? Per me è stato semplice trovare il metodo adatto alle mie capacità: la corsa. Tuttavia, ho pensato che associare la raccolta fondi ad una corsa classica come una maratona, non avrebbe avuto l’impatto che desideravo. Volevo qualcosa di più estremo e siccome da qualche tempo mi sto avvicinando al mondo delle ultramaratone, ho deciso di partecipare alla 100 km nel deserto del Namib. I chilometri totali in verità sono 104, ma ho chiesto all'organizzazione di poterne percorre 2 in più, arrivando così a 106, cifra per me simbolica perché 6 sono gli anni che Pietro ha vissuto con noi.

Si tratta di una gara a tappe molto faticosa. Correrò nella settimana dal 4 all’11 dicembre: un periodo dell'anno in cui dopo le 9 del mattino si superano i 40 gradi. Inoltre si correrà sulla sabbia, un contesto nuovo per me. Trovo l'impresa molto affascinante e di forte impatto simbolico: nel Namib ci sono le dune più alte del mondo e quando le percorreremo sarà come essere più vicini al cielo, a Pietro. Per me questo darà un valore aggiunto alla sfida.

Hai già raccolto oltre 13.000 euro. Quali strumenti hai usato per far conoscere l'iniziativa?

Sono molto soddisfatto di come sta andando la raccolta fondi. In particolare nella prima fase di lancio c'è stato un picco davvero importante di donazioni che con il tempo si sono poi "assestate".

Post Facebook Roberto Andreoli

Tutto è iniziato dal mio profilo Facebook: il 9 maggio 2016 ho scritto un lungo post dove spiegavo l'iniziativa lanciando la raccolta di donazioni. Ho scelto di raccontare direttamente la mia storia, la storia di mio figlio Pietro. Per mantenere aggiornati i miei followers ho anche aperto un blog che si chiama ascoltoilsilenzio.

Il fatto di raccontare una storia, senza aver paura di farlo, crea un forte impatto dal punto di vista della comunicazione. Credo che sia importante "colpire" chi ti segue, il donatore, per convincerlo a sposare proprio la tua causa, anche perché le iniziative benefiche sono molte e purtroppo non è possibile supportarle tutte. 

Il primo post ha superato le 300 condivisioni (ora arrivate a oltre 750) e molte persone mi hanno contattato privatamente per ringraziarmi e per supportarmi. Ancora oggi in molti tra quelli che hanno sentito parlare dell'iniziativa, mi chiedono l’amicizia su Facebook, anche solo per chattare. Uno degli aspetti positivi è che, indipendentemente dalle donazioni, la mia storia sta aiutando molti che hanno vissuto una perdita simile alla mia.

Con il tam tam generato dalla rete sono riuscito ad andare oltre la mie cerchie ed ho ottenuto anche il supporto di persone più note che hanno diffuso l’iniziativa. Tra questi Daniel Fontana, uno dei migliori triatleti al mondo, che ha deciso di condividere la mia iniziativa tramite i suoi profili social. E anche Giorgio Calcaterra, per tre volte campione del mondo dell’ultramaratona, che mi chiede costantemente come prosegue la mia raccolta fondi. 

Men's health parla di Run106PietroIn più sono riuscito ad avere visibilità su importanti testate nazionali: Men’s Health Italia, Runner’s World e la Gazzetta dello Sport. E la New Balance mi ha messo a disposizione l’equipaggiamento per la gara, per supportare #Run106Pietro.
Per finire la panoramica degli strumenti che ho utilizzato, c’è la promozione offline: in questa categoria potrei inserire la mia partecipazione ad eventi sportivi, anche organizzati da associazioni locali. 

Credo che tutti gli strumenti siano utili ma è necessario investire il proprio tempo. Da soli non sono sufficienti né la pagina su Rete del Dono né i social network: serve un mix e a volte è importante anche la presenza fisica. È quasi un lavoro a tempo pieno, ma ne vale la pena.

La passione per la corsa è fondamentale in questo tuo viaggio. Ci racconti quando è nata e come ha contribuito a darti la carica per affrontare questa sfida?

Logo #Run106Pietro

Dopo la morte di Pietro sono nati altri due bambini: Emma e Michele. Ho anche un altro figlio, Riccardo, il più grande. Sono stati loro assieme a mia moglie Enrica a darmi la motivazione: nel 2012 ho sentito il bisogno di reagire. Ero arrivato a pesare 115 chili e fumavo davvero troppe sigarette.

Ho smesso di fumare ed ho iniziato a correre. All’inizio facevo 100 metri e stavo male mentre adesso macino chilometri e ho perso 40 chili. La corsa mi permette di scaricare fatiche e pensieri: posso dire che mi ha fatto rinascere.

Ma non è solo questo. Credo che correre sia una metafora della vita, soprattutto quando si affrontano le lunghe distanze. Ci sono momenti di euforia e di forte energia, ma anche situazioni di stanchezza e abbattimento, alle quali bisogna reagire se si vuole portare a termine una gara.

Ecco, io so già che durante i 106 chilometri nel deserto avrò momenti in cui sarò fiaccato, ma reagirò e porterò a termine l’obiettivo. Il messaggio è che ognuno può rinasce e reagire, trasformando in positivo qualcosa di negativo. Anche se il dolore per la morte di mio figlio non passerà mai, sento che, assieme a Pietro, stiamo portando avanti qualcosa di buono per gli altri, e questo davvero mi ripaga di tutti gli sforzi.