Sandra Callegarin è una paziente dell'Istituto Oncologico Veneto alla quale viene diagnosticato un tumore al seno il 19 giugno del 2014. Da quel giorno, si sottopone a due interventi chirurgici per la rimozione del tumore e a sei cicli di chemioterapia. In tutte le tappe del percorso di cura, c’è una cosa che aiuta molto Sandra a combattere contro il male che l’ha colpita: la corsa. Per questo si ripromette, vinto il cancro, di affrontare un’altra sfida: costituisce con il marito la Onlus “Run Your Life Again”. Con lui decide di attivarsi per trovare almeno 10 donne colpite dal tumore al seno e una rappresentanza del personale medico/infermieristico dell’Istituto Oncologico Veneto che le ha seguite. Cerca persone che vogliano correre con lei il 6 novembre 2016 la maratona di New York, per raccogliere fondi per la ricerca sul cancro al seno ma anche per dimostrare che non solo di tumore al seno si guarisce, ma che è anche possibile riprendere a correre la propria vita una volta concluse le terapie.

Perché hai scelto proprio la corsa come sport per la tua “rinascita”?

“Io dico sempre che è stato un po’ un caso, anche se niente capita per niente. Avevo cominciato a correre contagiata dall’entusiasmo di mio marito, nel 2014: anno in cui lui si è iscritto alla maratona di New York (in novembre) e in cui io ho scoperto di avere un tumore (a giugno). Diciamo che è la corsa che ha scelto me”.

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In che modo questa disciplina sportiva ti è stata d’aiuto?

“Partivo da una situazione iniziale di “scetticismo”: ho scoperto invece, allenandomi, la gioia di aggiungere un minuto in più alla tabella di marcia e di poter controllare il mio corpo. La malattia prende la tua vita sotto le sue redini, invece la corsa mi dava l’idea di poter decidere io cosa fare. Mentre correvo mi facevo una sorta di training autogeno, mi davo delle istruzioni, per me è stato un grandissimo aiuto. Le terapie che si fanno dopo la chemioterapia comportano dei problemi come la menopausa precoce, che ha come conseguenza anche l’aumento di peso; la corsa aiuta a combatterlo, e si sa che se una donna si vede bella è più combattiva”.

Cosa ti ha spinta a diventare una personal fundraiser e a creare un team per raccogliere fondi?

“Tutto è partito dalla mia sfida personale di correre la maratona di New York: ho accompagnato mio marito, e ho deciso che l’anno dopo l’avrei fatta anche io. Poi è arrivato l’Istituto Oncologico Veneto; lì ho trovato l’eccellenza delle terapie ma anche in mani in cui potevo affidarmi ciecamente, grande umanità. Mi sono sentita curata sotto tutti i punti di vista e ho sentito il desiderio di restituire allo Iov tutto quello che avevo ricevuto. Così assieme a mio marito ho pensato di unire le due cose: aiutare donne che avevano vissuto questa mia esperienza e sostenere l’istituto oncologico Veneto, perché tutti sappiamo che la vera cura contro il tumore è la ricerca”.

Come sei riuscita a coinvolgere dodici donne tra pazienti e medici nel tuo team di running?

“Quando ho avuto questa idea mi sono rivolta allo Iov: dopo aver creato la Onlus con mio marito le dottoresse stesse si sono impegnate a divulgare la notizia e abbiamo raccolto le candidature. Si sono fatti dei test medici e con l’aiuto di un medico sportivo, un oncologo e una psicooncologa abbiamo messo insieme la squadra, fatta di medici ed ex pazienti. Prima siamo state unite contro la malattia, ora abbiamo un altro obiettivo: la ricerca. La squadra è un mix esplosivo, variopinto e variegato di donne dai 30 ai 63 anni che si sono viste una volta alla settimana per un anno, creando un legame profondo. Le dottoresse stesse hanno detto che per loro è stato un grosso arricchimento, anche perché ora sanno come approcciare meglio le nuove pazienti”.

Siete quasi all’80% dell’obiettivo raggiunto: come siete riuscite ad arrivare ad un traguardo così ambizioso?

“L’apporto di tutte le ragazze è stato fondamentale, nella diversità degli approcci al multimediale. Tutte si sono spese moltissimo, ciascuna ha sentito questo progetto come proprio e ha cercato di sostenerlo e di parlarne”.

La piattaforma di Rete del dono che ruolo ha giocato in questo?

“Il sito di Rete del Dono e la conseguente diffusione su Facebook sono stati fondamentali: io prima ero molto restia ai social network, ma utilizzati come strumento divulgativo di un messaggio buono sono davvero una potenza incredibile. Tante piccole donazioni hanno dato un grande risultato, e soprattutto hanno contribuito a diffondere il progetto e il messaggio”.

Che messaggio vorresti lasciare alle donne come te e ai malati in generale?

“Sicuramente “Never give up” il motto di molte di noi: attaccarsi alla vita con i denti, consapevoli che la medicina ha strumenti ogni giorno più potenti, la ricerca corre velocissima e la speranza di trovare una cura definitiva è sempre più grande. Invito anche a ricordarsi sempre che la malattia è un grande momento di svolta, e può essere un richiamo alle cose essenziali: non ci rendiamo conto che la vita è fatta di tante piccole cose di cui gioire, finchè non rischiamo di perderle”.

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