“L’individuo, donando il proprio tempo, che è una risorsa scarsa per tutti, una delle nostre risorse finite per natura, dona un pezzo di sé. In quest’ottica, fare volontariato dovrebbe essere un’esperienza bella, possibilmente divertente, in grado di suscitare interesse mese dopo mese. Questo significa pensare i volontari in una prospettiva differente, che è anche quella di essere in parte i beneficiari delle azioni dell’organizzazione”. È questo uno degli assunti fondamentali da cui parte il libro "Nuove frontiere del volontariato. Cercare, trovare e fidelizzare i donatori di tempo” di Laura Lugli, esperta di Fundraising e Peopleraising. “Il tentativo di innovazione del libro è proprio quello di mettere al centro il donatore e il suo impegno - spiega Laura Lugli - cioè partire dal suo desiderio di spendersi e fargli delle proposte che siano in linea con la sua motivazione personale e le sue possibilità concrete di impegno. Scopo del volume è portare all’interno delle organizzazioni questo nuovo modo di pensare, cioè la visione dei volontari come donatori di tempo. Bisognerebbe rimettere al centro questa prospettiva, prima di ricercare, selezionare e fidelizzare nuovi volontari”.

Come è cambiato il profilo del volontario in questi ultimi anni?

“Il pensiero più diffuso tra i volontari tra gli anni ‘80 e 2000 è stato questo: “Ho ricevuto tanto, sono stato fortunato, devo restituire a chi sta peggio di me”. Le nuove generazioni però sono cambiate, non hanno più quel “sentiment”: ci sono diversi tipi di motivazioni che spingono una persona a donare il proprio tempo per la comunità, e tutte hanno pari dignità, perché se ben incanalate possono aiutare dei progetti e delle singole attività. Le Non profit devono imparare a concepire le diverse motivazioni di ognuno come una parte fondamentale del loro lavoro. Solo in questo modo si riesce a far circolare le risorse per far crescere le attività e le organizzazioni: lo sforzo da fare è cercare di aprirsi a concepire il dono nelle sue varie sfumature e trovare gli strumenti per valorizzarle tutte”.

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Al giorno d’oggi, cosa spinge un personal fundraiser ad impegnarsi in una causa sociale?

“Un fenomeno a cui si assiste se si guarda alle nuove generazioni è quello del “volontariato informale”, al di fuori di organizzazioni Non profit canoniche. Questo succede perché la gente si riconosce molto di più in un’attivazione spot, non continuativa, più legata ad un bisogno sociale della comunità, del territorio circostante, molto prossimo e concreto. Si tratta di persone che si impegnano per una causa, attraverso un’azione che ha un’inizio e una fine: il volontariato istituzionalizzato fa fatica a prenderne atto e a modificare le sue strutture organizzative. Questo accade perché il contesto esterno è cambiato rispetto al passato: le persone hanno sempre meno tempo, e vorrebbero anche “acquisire” qualcosa dall’esperienza di volontariato. Un esempio molto calzante in questo senso è quella dei “Volontari per un giorno di Expo”: si svolgeva in un arco di tempo ben preciso, era un’iniziativa bella e divertente per i ragazzi, che potevano mettersi in gioco per imparare oltre che per essere d’aiuto e fare contemporaneamente una piccola esperienza formativa. Non ci dovrebbe essere un pregiudizio di fronte a questa nuova forma di volontariato: le organizzazioni dovrebbero strutturarsi per coglierle, perché rappresentano delle risorse in più”.

Il personal fundraiser in molti casi è una persona che si è attivata da poco e una delle sfide che le Non profit devono imparare a fronteggiare è come farli rimanere collegati terminata l’esperienza che li ha visti direttamente coinvolti. Hai qualche consiglio da dare?

“La difficoltà che io vedo è che nelle Non profit spesso non c’è un’offerta adeguata. Le organizzazioni lamentano l’assenza di volontari, ma devono tenere a mente che le persone vogliono fare delle belle esperienze. Se veramente si è capito che il donatore deve essere al centro, una realtà deve essere in grado di spiegargli che possibilità può offrirgli per mettersi in gioco ed essere d’aiuto. Ad esempio, se dopo una corsa di raccolta fondi si fa un incontro di follow up per conoscersi meglio, in quell’occasione si può cercare di pianificare un’attività insieme, valutando altre proposte, come ad esempio una cena di sostegno ai progetti”.

Come dovrebbe cambiare la visione che le Non profit hanno del volontario?

“Si deve imparare a vedere non più il volontario come solo “funzionale” a fare delle azioni ma una persona che attraverso il volontariato risponde ad un suo desiderio, un suo bisogno di rendersi utile e di essere partecipe, di investire il proprio tempo nelle attività della comunità. Bisogna poi coniugare questa nuova consapevolezza con un metodo: non solo ricercare nuovi volontari ma imparare a mantenerli nel lungo periodo. Solitamente la motivazione che spinge le persone ad impegnarsi cambia nel tempo: si inizia a fare volontariato per una ragione, e poi questa si modifica man mano che si fa attività: le statistiche parlano di circa sei mesi”.

Che cosa potrebbero fare le Non profit per intercettare questa nuova modalità di fare volontariato?

“Se una Non profit ha acquisito consapevolezza che il donatore va valorizzato, messo al centro e non deve essere dato per scontato, allora nel corso del tempo impara a curarlo e ringraziarlo. Questo si traduce in attività pensate apposta per loro e non solo con loro: programma quindi e investe tempo e piccole risorse per fare delle cene e delle feste di ringraziamento. Nel libro riporto diversi esempi di personalizzazione di queste modalità per dire “grazie” a chi si è speso per una causa”.

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